Gita al faro di Virginia Woolf è un libro più simile a una lunga poesia che a un romanzo. La stessa autrice, come ammette in una lettera, sa che il termine romanzo non è adatto a definire l’opera che ha scritto. Allora utilizza, non senza dubbi, un’altra parola per descrivere ciò che ha scritto: elegia. Ma per capire cosa è davvero Gita al faro bisogna domandarsi qual è il significato e il motivo che stanno dietro una scrittura così difficilmente catalogabile.
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Gita al faro di Virginia Woolf
To the lighthouse, pubblicato nel 1927, viene considerato un capolavoro della letteratura di inizio Novecento. Bisogna subito ammettere, però, che il lettore medio – soprattutto se non ama la poesia – rischia di rimanerne profondamente deluso.
L’obiettivo che muove la scrittura di Virginia Woolf non è raccontare una storia, ma andare all’essenza delle cose. Il suo lavoro è più simile a quello di un pittore che prova a rappresentare, non senza deformazioni, quel qualcosa di profondo e segreto che è dietro le cose della vita.
La storia è fatta dei pensieri e delle sensazioni dei vari personaggi, sui quali il narratore (esterno e onnisciente) si focalizza pagina dopo pagina. Non bisogna aspettarsi un incedere di avvenimenti messi uno dietro l’altro seguendo una ordinaria scansione temporale. La vita che viene raccontata dall’autrice è ben lontana dalle precise e razionali rappresentazioni del realismo, è tutta fatta di emozioni e impressioni.
La frase di Virginia Woolf
Questo particolare tipo di raffigurazione si lega strettamente alla costruzione delle frasi di Virginia Woolf, come spiega Hisham Matar nell’introduzione all’edizione Einaudi del libro:
«Woolf padroneggia un tipo di frase alla quale si era andata via via approssimando; una frase che oggi possiamo dire interamente sua: una lunga, frammentata, stringa di osservazioni e intuizioni che procede liberamente, non appesantita o incalzata dal bisogno di raccontare la “storia”, che avanza invece con l’inesorabile progressione dello scalpello. S’insinua […] rivelando non mere informazioni bensì il ritmo e l’umore di vite interiori, e il modo in cui entrano in risonanza con le immagini e le sensazioni del mondo fisico. Ha una forza precisa a cui non interessa sopraffare la realtà».
Nonostante questo particolare tipo di prosa poetica, tutti i personaggi e i luoghi descritti in Gita al faro hanno un corrispettivo nella vita reale dell’autrice. La signora Ramsay, ad esempio, che primeggia tra tutte le figure dipinte, è ispirata alla madre di Virginia Woolf e il signor Ramsay al padre. La casa di vacanze in cui si trova la famiglia Ramsay con gli amici sull’isola di Skye, in Scozia, è la casa che aveva la famiglia di Virginia Woolf. E Lily Briscoe, la pittrice di cui nel libro seguiamo spesso i pensieri, è ispirata all’autrice stessa.
Gita al faro di Virginia Woolf: la pittrice e la scrittrice
Non è un caso che Virginia Woolf scelga come suo alter ego nel libro proprio una pittrice. Come Lily prova a rappresentare l’essenza profonda delle cose nella sua pittura, così l’autrice prova a dire quel qualcosa di indicibile con le parole e le frasi che si susseguono sul foglio.
Attilio Bertolucci, nell’introduzione all’edizione Garzanti di Gita al faro, dice che in fondo il tema del libro è il «passaggio del tempo». Non ci sono grandi avvenimenti nella vita dei coniugi Ramsay, «ma i piccoli nulla della vita quotidiana ci dicono tutto su di loro, come individui e come coppia», scrive Bertolucci.
Quando si legge il libro di Virginia Woolf «siamo di continuo ma leggerissimamente avvinti dal colore, dal suono, dal vibrare delle ore che passano e dal succedersi disordinato e minuto dei pensieri che attraversano la mente dei personaggi». E alla fine l’effetto è «farci meditare sul mistero della morte e sul mistero della vita», conclude Bertolucci.
È proprio quel mistero a rendere necessaria la forma poetica della prosa della Woolf, fatta di immagini, simboli, sensazioni. I fatti raccontati sono sempre immersi nei pensieri e nella soggettività dei personaggi. Al punto che chi ama le narrazioni, fatte sì di approfondimento psicologico, ma anche di avvenimenti, incidenti, particolari, non può che rimanere deluso dalla lettura di Gita al faro.
Il motivo del linguaggio poetico
Come sa chiunque si sia avvicinato alla lettura di versi scritti soprattutto tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, il linguaggio poetico moderno è spesso indecifrabile. Questo perché il poeta prova a dire qualcosa che è indicibile e quindi non può far altro che approssimare la rappresentazione verbale, allontanandosi da quello che le parole generalmente significano, nel tentativo di creare simboli che possano restituire il significato più profondo delle cose.
Questo significato così inafferrabile è quello che vuole raggiungere Virginia Woolf, quel mistero della vita e della morte sono di certo il motivo per cui la scrittura ha questa forma così “difficile”, così poco narrativa e tanto sfuggente.
Di questa idea è anche Nadia Fusini. Nella postfazione all’edizione Feltrinelli di To the lighthouse (tradotto dalla stessa Fusini come Al faro, rispettando il titolo originale), la traduttrice e critica sottolinea in più punti lo strettissimo legame tra la scrittura del libro e la lingua tipica della poesia.