Ciò che colpisce di Genesi 3.0, ultimo romanzo di Angelo Calvisi pubblicato dalla casa editrice indipendente Neo, è lo sguardo straniato (e straniante) del protagonista. Simon è un ragazzone che vive da solo con il Polacco, un uomo burbero e violento che va dicendo in giro di aver vinto tante battaglie dai nomi improbabili durante la guerra che ha scombussolato il mondo immaginario nel quale si svolgono le vicende narrate. I due vivono in un bosco, lontani dalla Capitale, tra piante dagli strani effetti che contribuiscono a creare una continua allucinazione, al protagonista/narratore e al lettore.
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La storia è raccontata in prima persona da Simon, e il lettore si trova a vivere strane esperienze con gli occhi del protagonista. Nella prima parte del romanzo (intitolata “Selvatico”), la narrazione va avanti con una fluidità e una piacevolezza davvero sorprendenti; il lettore è incuriosito e vuole capire qualcosa del mondo in cui vive questo strambo protagonista: come è fatto, quali leggi lo regolano.
Mauro Maraschi, nella sua recensione del libro pubblicata da Mangialibri, sottolinea, a ragione, la vicinanza del romanzo di Calvisi al genere picaresco. Del resto, lo sguardo così particolare, ingenuo e stralunato del protagonista, il quale vive insieme al lettore le proprie avventure, ricorda davvero le narrazioni dei picari. Capostipite di questo genere è il Lazarillo de Tormes, un racconto lungo scritto da un autore anonimo nel Cinquecento, molto piacevole e assolutamente leggibile con gusto ancora oggi.
Certo, l’ambientazione di Genesi 3.0 ricorda i racconti post-apocalittici e fa direttamente pensare a una distopia, ma, come lo stesso autore ha spiegato in un’intervista a Il lettore medio, tutto si muove sul filo dell’allegoria. Non viene raccontato quello che potrebbe succedere al nostro mondo, ma quello che succede al nostro mondo. Calvisi non vuole lanciare un messaggio, vuole raccontare un mondo strano e fuori di testa, dove il tratto esagerato e grottesco non fa che mettere in risalto il legame col mondo reale. Durante la lettura ci sono momenti in cui sembra quasi di trovarsi in un racconto di Kafka (legame giustamente sottolineato nella quarta di copertina), in particolare nella parte intitolata “Ospedaliero”, con il lettore che collega quelle vicende così irreali e a tratti incredibilmente crudeli, a quello che avviene davvero nella sanità del nostro mondo.
Angelo Calvisi, però, ha in mente una realtà precisa. Il testo, per quanto possa apparire strano, è profondamente autobiografico: l’ispirazione per Genesi 3.0 è arrivata dopo che lo scrittore ha vissuto in un villaggio della Germania occidentale, Peppenhoven. Il clima e l’ambiente sociale tedesco hanno influenzato la sua scrittura. Un paese di “asociali, pazzi e disperati”, dove “l’ordine è maniacale”, dice Calvisi nell’intervista a Paquito Catanzaro. Questa è la sua Germania. Questo è il mondo del suo romanzo.
Davanti al caos di questa storia, però, si rimane davvero tramortiti, spaesati, senza riferimenti. Eppure il ritmo della narrazione spinge a continuare, ad andare avanti: incuriosisce e ci si sente segretamente attratti dalla voce così riconoscibile di Simon. Al contempo, risulta comprensibile il pensiero di chi, leggendo, non riesce a capire.
Luca Pantarotto, per esempio, in un lungo e sincero post sul suo profilo Facebook, racconta le sue sensazioni dopo la lettura e parla della sua difficoltà a recensire un testo del genere: “Non saprei da dove iniziare a scriverne perché non saprei neanche da dove iniziare a raccontarlo, non saprei spiegare quale sia il suo significato né dove voglia andare a parare, e nemmeno se voglia davvero andare a parare da qualche parte”, scrive il recensore. E poi, con fare dubbioso, avvicina il romanzo al racconto di un sogno da interpretare: “Solo che i sogni hanno questa cosa, che di solito ci si può vedere tutto e il contrario di tutto”.
Questa idea, del resto, è confermata dallo stesso autore, sempre nell’intervista a Il lettore medio, rispondendo alla domanda “Come è nato il romanzo?”: “La dimensione onirica è nel testo così marcata che per rispondere a questa domanda e sciogliere tutti i nodi logici e motivazionali ci vorrebbe un analista!”.
Una lettura del romanzo davvero pertinente credo l’abbia data l’autore del blog Writingbad, che si firma con lo pseudonimo Walter White: “Calvisi ha il pregio, tra gli altri, di dar vita a personaggi che pur nella loro unidimensionalità non sono per niente degli stereotipi, sono quasi disumani, privi di misericordia, di empatia, amorali, inchiodati nel loro ruolo all’interno di una società strutturata attorno e sul Potere, esercitanti la loro dose di Potere su subordinati che a loro volta fanno valere il loro Potere su chi sta ancora più sotto e così via”.
L’autore, quindi, gioca continuamente sul paradosso, sull’esagerazione, per poter mettere in risalto con tanta forza storture reali di personaggi irreali.
Arrivati alla fine di Genesi 3.0, dopo aver attraversato una scrittura stilisticamente lodevole, diventa necessario ritornare alle parole stampate in quarta di copertina, utilissime per poter dare la giusta interpretazione a un romanzo per certi versi incomprensibile: la Capitale, dove andrà a vivere Simon, è fatta di “lavoro inutile, burocrazia tumorale e sanità alienata”; il romanzo è “una fiaba allucinata sui vincoli del potere e sulle storture del sangue, una satira visionaria su ciò che siamo o che potremmo diventare”.
Ma credo sia vera soprattutto la penultima osservazione: Genesi 3.0 ci fa vedere ciò che siamo, in modo assolutamente inaspettato.
Piccola bibliografia
Luca Pantarotto, Post su Facebook, 27 febbraio 2019
Walter White, Metarecensionina 25, “Writingbad”, 17 febbraio 2019
Mauro Maraschi, Genesi 3.0, “Mangialibri”
Paquito Catanzaro, Intervista ad Agelo Calvisi, “Il lettore medio”, 21 febbraio 2019
Ringrazia, lui.