Quando un autore vende centinaia di migliaia di copie, credo sia innegabile una certa maestria: in lui che racconta la storia, negli editor che la correggono e migliorano, nei curatori delle collane che scelgono i libri da pubblicare e, più in generale, negli editori che investono in una squadra vincente. E tutto ciò a prescindere dalla qualità letteraria o dal gusto del singolo lettore. Quindi, se Maurizio De Giovanni è diventato un brand, non si può far altro che riconoscere le sue qualità e quelle di chi lo supporta a ogni uscita. Pubblicare tre libri l’anno e venderli bene non è semplice: vuol dire che esiste una forte comunità di lettori che ti sostengono a ogni nuova pubblicazione. E crearla, questa community, è tutt’altro che facile, anche se si scrivono gialli. Anzi, vista la concorrenza, soprattutto se si scrivono gialli.
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Proprio perché credo che si debbano riconoscere certi meriti, ho sempre guardato con rispetto gli autori di bestseller e, per un certo orgoglio nazionale, soprattutto se sono italiani. Non avevo mai dato una possibilità a Maurizio De Giovanni, preso da mille altre letture che consideravo più urgenti. Ma visto che nelle ultime settimane si sta parlando di nuovo dello scrittore napoletano, e in particolare del suo commissario Ricciardi, la curiosità è ritornata.
Naturalmente non ho cominciato con l’ultimo romanzo della serie appena uscito (Il purgatorio dell’angelo), ma con il primo, Il senso del dolore (Einaudi Stile libero, 199 pp., 12€), pubblicato originariamente nel 2006 da una casa editrice napoletana, Graus Editore, e poi nel 2007 da Fandango, in una versione rivista e corretta.
Devo dire subito, però, che Maurizio De Giovanni e il commissario Ricciardi non mi hanno convinto.
Bella l’ambientazione: la Napoli degli anni Trenta, durante il regime fascista, ha una sua identità ed entra bene nella storia; avrei preferito un approfondimento leggermente maggiore della vita quotidiana in quel periodo, ma forse il motivo di questa assenza ce lo dà lo stesso Ricciardi nel colloquio immaginario con l’autore (Incontro con Ricciardi) che chiude questa edizione del romanzo:
«Cosa ne pensi di questo governo?», chiede De Giovanni. «Mi sembrano dei buffoni innocui», risponde il commissario. «Bruno Modo, il medico legale, li ritiene pericolosi e non perde occasione di lanciarsi in lunghe tirate contro Mussolini e i suoi. Io invece penso che non incidano più di tanto sulla vita della gente. Chi ha fame ha ancora fame, chi non ne ha continuerà a non averne. Forse, per capirne di più, devi parlarne con lui, col dottore».
Del resto, il commissario Ricciardi è troppo preso dalle emozioni che lo sommergono: le sue e quelle dei morti ammazzati dei quali vede le anime lamentose. Questo elemento fantastico è importante per la caratterizzazione del personaggio ed è sempre presente, ma non diventa mai troppo invasivo, neanche durante la risoluzione del mistero. Il protagonista è senz’altro interessante e la sua personalità abbastanza approfondita, con la sua storia e i suoi tormenti. Gli altri comprimari, come il medico Modo, il brigadiere Maione, o la tata Rosa, hanno una loro identità, ma forse sono troppo al servizio del personaggio principale. La mia impressione, è bene rimarcarlo, si basa solo sulla lettura di questo primo romanzo dedicato a Ricciardi; probabilmente nei successivi libri (oltre dieci) anche i personaggi secondari assumono uno spessore maggiore.
La storia è narrata in terza persona con più punti di vista differenti e salti temporali, come accade spesso nei romanzi del genere. L’inizio, pur molto sommesso, mi ha calato piacevolmente nella storia dell’omicidio del cantante lirico Vezzi in un camerino del teatro San Carlo. Ma il motore narrativo mi è sembrato incepparsi e perdere fluidità nella parte centrale. Quella lentezza che mi sembrava inizialmente un modo tutto particolare di raccontare un giallo, pagina dopo pagina ha cominciato a perdere efficacia. E l’introduzione, a metà romanzo, di un nuovo e importante personaggio, con una storia strappalacrime, eccessivamente rigida e un po’ banale, non mi è piaciuta.
Nelle ultime pagine De Giovanni si riprende, ma lo svelamento dell’assassino non lascia nessuna particolare emozione. Tutto nella norma, senza guizzi o trovate rocambolesche. In tutto il romanzo, poi, sono praticamente assenti, se non in piccoli punti, scene più movimentate in grado di dare un po’ di adrenalina allo stanco lettore.
Tale “calma” pare abbastanza voluta, ma credo che l’autore non sia riuscito a trasmettere la giusta “ansia” al lettore nemmeno nei momenti in cui sarebbe servita. E questo, in un romanzo giallo, è un bel problema. Certo, qui si punta molto sull’approfondimento del protagonista e meno sulla parte investigativa, ma se quest’ultima è presente ed è così centrale, diventa impossibile non tenere conto della sua poco brillante riuscita.
Ho letto tutti i libri di De Giovanni, sicuramente non sono dei thriller, non sono neanche dei capolavori ma, dopo il primo ho dovuto leggere anche gli altri. L’empatia, l’affettuositàeil garbo con cui scrive sono unici. Critica rigida per uno scrittore semplice
Grazie per la lettura, Aurora. Nessuno mette in dubbio che le pretese di De Giovanni non siano alte, ma credo che il problema del ritmo ci sia. Almeno nella parte finale del romanzo, in un giallo, si deve creare quella tensione. Purtroppo io non l’ho riscontrata. Poi, sui personaggi siamo d’accordo. Ma il problema è il meccanismo narrativo, troppo piano.