Quando ho letto la notizia dell’uscita su Netflix (praticamente a sorpresa) di una nuova puntata di Black Mirror, intitolata Bandersnatch, ho gioito. Ma che questa sarebbe stata interattiva, quindi avrebbe permesso una certa possibilità di scelta tra i vari percorsi narrativi previsti dagli autori, non mi ha incuriosito particolarmente. Anzi, questa novità mi ha lasciato abbastanza dubbioso. Perché sono convinto che una delle cose più interessanti e belle di una narrazione – poco importa che sia un film, una serie tv, un libro, un fumetto – è la costruzione dell’intreccio, della fabula, della trama. Se una storia mi piace è perché c’è stato qualcuno che con una certa maestria ha costruito il tutto.
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Saper raccontare è una cosa che non tutti sono capaci di fare, e per questo lasciare possibilità di scelta allo spettatore rischia di creare solo un grande caos.
Il mio timore, una volta iniziata la visione di Bandersnatch, si è rivelato in parte fondato.
La storia raccontata è quella di Stefan, un giovane programmatore che vuole creare un videogioco ispirato a un libro che ha molto amato, intitolato proprio Bandersnatch e scritto da Jerome F. Davies, un autore che fa parte della finzione narrativa. Il videogioco che il protagonista propone a una famosa casa di produzione dovrà avere lo stesso meccanismo, in un mondo tridimensionale e non solo attraverso un’avventura testuale, come era avvenuto fino ad allora. Ricordiamo, infatti, che l’azione è ambientata nel 1984, quando l’industria videoludica era agli albori.
A questo punto credo sia necessario sottolineare la coerenza che c’è tra la storia raccontata e l’interazione dello spettatore. La particolarità del film è rappresentata dalla possibilità di scegliere che direzione prendere ai diversi bivi narrativi e il protagonista della narrazione programma proprio un videogioco che ha questo obiettivo. Non voglio rovinare la visione a chi ancora non ha avuto possibilità di vedere questa puntata speciale, ma gli elementi di coerenza sono ancora più numerosi e a volte sorprendenti. E questo è senz’altro il punto di forza del prodotto Netflix.
Non mancano, poi, i riferimenti interni all’universo Black Mirror, ormai un classico per chi conosce la serie.
L’esperimento cinematografico di Bandersnatch, però, credo non sia riuscito dal punto di vista narrativo. Spesso lo spettatore si trova a fare delle scelte praticamente obbligate. La puntata, infatti, torna indietro per indurti a fare la scelta che gli sceneggiatori vogliono farti fare. Insomma, il libero arbitrio, per quanto porti a conseguenze nella storia, spesso si rivela fittizio. In generale, poi, la storia raccontata non ha la forza, i conflitti morali e la capacità di spiazzare che hanno altre puntate di Black Mirror.
Infine, credo valga la pena concentrarsi sul fortissimo legame tra film e videogiochi. Bandersnatch mi ha fatto venire in mente un videogame al quale ho giocato quasi dieci anni fa: Heavy Rain, uscito per Playstation 3 a inizio 2010 e sviluppato dalla Quantic Dream. Quel videogioco fece grande clamore perché mischiava l’interattività del medium videoludico e una forte componente cinematografica: si guidavano dei personaggi (con azioni molto limitate rispetto a un classico gioco) e si facevano delle scelte che portavano a sviluppi differenti della trama. Una delle critiche, all’epoca, fu che il gioco si avvicinava troppo ai film, proprio perché la storia aveva un’importanza molto maggiore rispetto al gameplay, cioè alle cose che effettivamente il giocatore poteva fare con i personaggi controllabili.
Heavy rain, però, aveva una struttura narrativa che portava davvero a finali diversi. In Bandersnatch questo non avviene: è un’altra cosa.
Ps. Per chi volesse avere un quadro completo delle complesse dinamiche che ci sono dietro il film Netflix, consiglio la visione di questo video su Youtube fatto da Caleel.