C’è un cortometraggio di Steve Cutts intitolato Happiness che spiega bene quanto il consumismo sia tra le principali cause dell’infelicità nei nostri tempi. Il protagonista è un topo, ripreso nella sua quotidianità in una città abitata da altri topi. Questo topo insegue affannosamente tanti oggetti diversi: un televisore, una macchina, una bottiglia di alcol. Promettono tutti la stessa identica cosa: la felicità. Non a caso la parola Happiness compare su ogni cosa e in ogni cartellone pubblicitario.
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Nel finale il topo insegue una banconota, ultimo disperato tentativo di essere felice. Una volta afferrata, però, si ritrova catturato da una trappola per topi che lo inchioda a una scrivania a battere a computer. Condannato, insieme ad altri suoi simili, a lavorare, senza possibilità di uscita.
Come resistere all’infelicità del consumismo
Happiness è una critica molto efficace al consumismo, cioè quella tendenza a comprare più cose di quelle che ci servono realmente. Perché la pubblicità ci fa credere che quelle cose siano indispensabile per la nostra vita e quindi, indirettamente, per la nostra felicità. A questo si aggiunge poi la pressione sociale – pilotata dal marketing – che fa credere a una persona qualsiasi che un cellulare di 1000€ sia indispensabile per la propria vita. Peccato che poi la maggior parte delle persone che comprano quel cellulare guadagnino mensilmente poco più di quei 1000€.
Il bisogno di lavorare
Insomma, credo sia evidente a tutti che negli ultimi anni si è arrivati a una degenerazione che ha portato le persone ad essere davvero ossessionate dal possesso delle cose. Ma ovviamente per comprare queste cose bisogna guadagnare soldi, e per guadagnare soldi – se non si vogliono scegliere sistemi illeciti – bisogna lavorare. Così le persone, pur di potersi permettere un determinato stile di vita, pur di poter comprare quella determinata automobile o quel particolare paio di scarpe, sono disposte a lavorare per gran parte della propria giornata.
Ci si potrebbe domandare: se tutto ciò ha come risultato la felicità, cosa c’è di male? Il problema, purtroppo, è che le persone che possono permettersi qualsiasi cosa in realtà sono tutt’altro che felici. E possiamo vederlo anche nelle nostre modeste vite quando riusciamo ad ottenere un oggetto che avevamo tanto bramato: quanto dura quella soddisfazione? Poco più di qualche ora. Ma allora, perché continuiamo ad inseguire la felicità offerta dal possesso delle cose?
Minimalismo: Il meno è ora
Intorno a questa domanda si sviluppa un bel documentario Netflix intitolato Minimalismo: Il meno è ora che esplora le ragioni profonde che ci sono dietro un vero e proprio movimento culturale fondato da Joshua Millburn e Ryan Nicodemus. Questi due americani sono amici dai tempi della scuola ed entrambi avevano raggiunto ottimi risultati sul lavoro: guadagnavano bene e avevano posizioni di rilievo nelle rispettive aziende di cui erano dipendenti. Potevano permettersi quel che volevano, ma nonostante ciò non erano felici. Si avvicinano, quindi, alle idee del minimalismo: liberarsi degli oggetti di cui non si ha bisogno per capire che non sono le cose a rendere felice una persona.
Abbracciato questo pensiero semplice ma a suo modo rivoluzionario, la loro vita cambia: non dovendo preoccuparsi delle cose, cominciano ad avere più tempo per occuparsi delle proprie relazioni, possono dedicarsi alle proprie passioni, approfondire le proprie conoscenze negli ambiti di loro interesse, possono vivere senza l’ansia e la preoccupazione di dover lavorare per qualcuno. Possono occuparsi della propria salute.
Visti i risultati, decidono di fondare un blog, chiamato theminimalist.com, per spiegare alle persone come diventare minimalisti e perché è la scelta giusta.
Dove si trova la felicità
L’obiettivo del minimalismo è rendere le persone più consapevoli delle loro vite per poter essere più soddisfatti, più liberi e, infine, più felici. Perché la felicità non è nel possedere le cose, non è nell’essere obbligati a lavorare per poter comprare quelle cose. La felicità è vivere ogni momento a pieno, godere di ogni piccolo piacere che la vita ci offre, liberarsi dalle ansie che il condizionamento sociale – ed economico – ci impone.
Si parte quindi dall’abbandonare gli oggetti e si arriva ad apprezzare la vita in quanto tale.
Il minimalismo lotta proprio contro il consumismo che obbliga il topo di Happiness a lavorare per guadagnare soldi, intrappolato in un ciclo infinito dal quale non si può uscire.
La semplicità volontaria
Una cosa molto simile al minimalismo è quella che persegue e predica anche un blogger italiano chiamato Francesco Narmenni sul suo sito smetteredilavorare.it e sull’omonimo canale Youtube. Lui, però, non parla di minimalismo, bensì di semplicità volontaria: tagliare tutte le spese superflue che invece il sistema economico ci fa credere essenziali per la nostra felicità.
Il fine di Narmenni (che lui ha già raggiunto) è vivere senza lavorare: ovviamente non si intende non fare nulla dalla mattina alla sera, ma poter fare quello che davvero si ha voglia di fare. Senza l’obbligo di svegliarsi la mattina e andare a lavorare al servizio di persone che non vorremmo mai avere come amici.
Ma come si fa a smettere di lavorare? Semplicemente risparmiando, spendendo solo il minimo indispensabile (Narmenni e la sua famiglia vivono con 500€ al mese) e investendo i risparmi per avere un ritorno annuo che, sul lungo periodo e con una cifra investita molto alta, può permettere di smettere di lavorare. O comunque di lavorare di meno. Narmenni, infatti, parte dal presupposto che la maggior parte delle persone fa un lavoro insoddisfacente che viene portato avanti solo per necessità. Non si è liberi, ma schiavi.
L’unico modo per liberarsi di queste catene è liberarsi delle cose superflue, quelle cose che per essere comprate obbligano le persone a lavorare o, peggio, a indebitarsi. Solo se non si è schiavi – dice Narmenni – si può essere davvero felici. Ma per raggiungere questo obiettivo ci vuole molto impegno e fatica: il blog smetteredilavorare.it si pone l’obiettivo di spiegare alle persone come fare.
Il problema del minimalismo
Il minimalismo, quindi, pare essere l’arma perfetta contro l’infelicità a cui ci condanna il consumismo. Inoltre, consumare di meno è anche il modo migliore per diminuire l’inquinamento e fermare i cambiamenti climatici. Tutto perfetto, allora? In realtà non proprio. Perché c’è una questione enorme che non emerge (o emerge troppo poco) quando parliamo di minimalismo.
La maggior parte dei lavori, infatti, si basa su questo superfluo che il minimalismo (o la semplicità volontaria) vogliono eliminare. Ciò significa che se, per assurdo, tutte le persone venissero “convertite” a queste pratiche anti-consumistiche vedremmo sparire la maggior parte dei posti di lavoro esistenti oggi.
Che senso ha viaggiare in aereo e andare in paesi stranieri se non si è visto nemmeno tutto quel che di bello c’è nella provincia in cui si vive? Che senso ha andare al ristorante se possiamo cucinare a casa ogni prelibatezza spendendo cinque o dieci volte in meno? Che senso ha comprare vestiti o scarpe ogni anno quando quelle dell’anno prima sono ancora in ottimo stato? Che senso ha fumare se sappiamo benissimo che fa male alla salute? Che senso ha ubriacarsi la sera se sappiamo che può solo farci stare fisicamente e psicologicamente male?
Ecco, facciamo tutte queste cose (su cui si basano gli stipendi di tanti lavoratori) perché pensiamo che così saremo più felici. Ma come abbiamo avuto modo di capire fino ad ora, la felicità non si raggiunge attraverso le cose. Come spesso capita, ci vuole moderazione nell’affrontare le questioni della vita. E forse, la cosa migliore, è cominciare ad essere un po’ più minimalisti. Non eliminare davvero tutto il superfluo, ma almeno una parte di esso. Così tutti avremmo bisogno di meno denaro e tutti, forse, saremmo un po’ più felici.