La separazione del maschio di Francesco Piccolo, pubblicato da Einaudi nel 2008, è un romanzo fatto di frammenti. Potrebbe sembrare un modo come un altro per costruire una storia, ma, come proverò a spiegare, c’è molto di più dietro questa scelta. E quando diventa chiaro che dietro tale “frammentazione” c’è un’idea organica che davvero tiene insieme tutto, allora capisci di aver letto un gran libro.
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Già partendo dalla trama si possono intuire diverse cose. Il protagonista, l’io narrante senza nome, è un montatore: mette insieme i pezzi e crea, insieme al regista, il film. Da tante scene (frammenti, appunto) viene fuori un prodotto unico.
Ma l’io narrante è soprattutto un maschio a cui piacciono le donne. Fa sesso con molte di loro, ma ha anche una moglie di cui è innamorato. È un erotomane, ma anche un padre affettuoso che guarda la figlia crescere, con i suoi problemi e le sue fragilità.
La separazione del titolo, poi, è sì quella tra marito e moglie, ma è anche un modo di stare al mondo del maschio protagonista, con la sua vita frantumata in tante parti.
In un’intervista all’Huffington Post, mentre parla di un altro suo romanzo, L’animale che mi porto dentro, Piccolo spiega come questa scissione dell’uomo sia nella natura delle cose:
“[Il maschio] è sempre sdoppiato. È come se da un parte avesse un elastico che lo tira verso il progresso, cioè verso l’allontanamento dalla sua parte animale, dall’altra ha una spinta alla reazione, a tornare più animale possibile”.
E la parte animale del protagonista della Separazione è ovviamente il sesso e il tradimento, argomenti che hanno una parte importantissima nell’economia del romanzo. Ma quello che rimane impresso al lettore è proprio l’insieme dei tanti aspetti. C’è l’amore fedifrago, l’amore paterno, l’amore coniugale. C’è il lavoro, il mondo circostante, la cultura pop.
La frammentazione, quindi, diventa la cifra caratterizzante del libro. E la narrazione non è un caso che prosegua anch’essa per frammenti, messi insieme con grande maestria dallo scrittore/montatore.
Ogni volta che vediamo uno spazio bianco a separare il paragrafo precedente da quello successivo capiamo che l’autore ci metterà davanti una cosa diversa. Un aneddoto di vita quotidiana, un ricordo della vita da padre, una scena di sesso, il racconto di come viene conosciuta quell’amante o di come viene conosciuta la moglie. Tutto questo è spezzettato, tra passato, presente e digressioni varie. E qui capisci che la volontà di raccontare una certa cosa è chiara nella mente dell’autore.
È davvero La separazione del maschio, con tutto quello che sta a significare, che lo scrittore vuole mettere su carta.
In un’intervista a Mangialibri, Piccolo spiega che “l’uomo de La separazione del maschio mi sembra che esprimesse più potenza che fragilità. È un libro scritto a quarant’anni, nella stagione del sentirsi potenti, del sentirsi stocazzo”.
E questo sentirsi inarrestabile del maschio diventa ancora più chiaro quando, a un certo punto, Piccolo fa dire al suo narratore di essere un uomo senza inconscio. E lui lo ripete all’Huffington Post:
“Quel personaggio era l’uomo senza inconscio. Senza freni alla libido. Che poteva fare, e faceva, tutto quello che desiderava. Era un’espressione di potenza”.
Se consideriamo l’inconscio come il contenitore della nostra mente in cui va a finire tutto il represso che la società ha imposto a ognuno di noi, è vero: il maschio narratore non ha inconscio perché fa tutto quello che la comune morale proibirebbe.
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Un crescendo di trasgressioni, dalle più classiche fino alle più perturbanti. Il protagonista ha delle amanti, ma le ama tutte, e nel frattempo, pur tradendola, continua ad amare la moglie. È ossessionato dal sesso, ma è anche un padre affettuoso. E poi arriva la parte finale del romanzo, dove la storia diventa davvero allucinante.
Francesco Piccolo racconta cose, anche le più indicibili, che ognuno potrebbe immaginare di fare, ma che nella finzione letteraria diventano realtà. Il ritorno del represso, lo chiamerebbe il grande critico Francesco Orlando. Ed è lì che il lettore si chiede: ma tutto questo può essere vero?
Ovviamente non mi riferisco al fatto che l’autore possa aver vissuto certe situazioni, perché la letteratura è sempre, allo stesso tempo, autobiografia e finzione. Ma mi riferisco agli impulsi che vengono raccontati.
In altri suoi romanzi, lo scrittore non ha lasciato senza nome il protagonista/narratore, e lo ha chiamato proprio Francesco Piccolo. Perché questa scelta? Ecco cosa dice Piccolo in un’intervista a Vanity Fair. Il riferimento è all’Animale, ma il discorso è applicabile senza forzature anche alla Separazione:
“Chiamare il mio protagonista come me e dargli una vita il più possibile simile alla mia è un modo di dire al lettore ‘è tutto vero’. Se uno legge un libro come questo, in cui chi scrive sta cercando di tirare fuori le cose meno edificanti di una persona, è molto importante che pensi che sia tutto assolutamente vero. Poi la vita mia sono cazzi miei e questa è la distinzione che mi sembra sufficiente”.
Però, il dubbio che mi è venuto leggendo La separazione del maschio, al di là di quali siano le intenzioni dell’autore, è proprio relativo a quel “è tutto vero”: quanta verità c’è dietro la materia del racconto? Un uomo può davvero fare le cose che fa il maschio narratore? Può davvero spingersi a tanto?
Insomma, Piccolo ci mette in crisi: mette in crisi il maschio, mette in crisi la femmina, mette in crisi i figli.
Un padre può fare, anche solo potenzialmente, cose del genere? Io potrei spingermi fino a quel punto? È qualcosa di brutto o è semplicemente la vita?
Ecco, credo che se un autore con la sua storia riesce a farci ragionare così, vuol dire che ha fatto bene il suo lavoro. È un modo di fare “furbetto”, come dice Loredana Lipperini? Può darsi.
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Ma se possiamo anche concordare che il tutto non sia realistico, possiamo di certo ammettere che tutto questo sia vero. Quelle pulsioni, quei desideri proibiti, quelle spinte verso il peccato sono anche nostre. E la cosa, proprio per questo, ci fa paura.
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